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“Panelle & Crocchè”, quando lo “street food” parla siciliano

Santa Lucia è il giorno in cui arancine, cuccìa, panelle e crocchè (fortunatamente presenti durante tutto l’anno sulle tavole dei palermitani) conoscono il loro momento di gloria poiché vengono prodotte e consumate in maniera copiosa in onore della santa martire che- come narra la leggenda-  in questo giorno, sollevò la popolazione, messa  in ginocchio dalla carestia,  facendo arrivare al porto di Palermo un bastimento colmo di grano.

Le panelle, sia da sole, che accompagnate con le “crocchè” (detti anche “cazzilli” per la loro forma fallica), nel panino  o senza, sono,  di certo,  il simbolo della gastronomia palermitana che ne fa sfoggio da tempo immemorabile in ogni angolo della città come una bella signora mette in mostra i propri gioielli. Queste  preziose “gemme dorate” della cucina panormita si ottengono, in realtà, dalla farina di ceci,  legumi  anticamente molto diffusi soprattutto nei ceti più modesti spesso in sostituzione  della carne più cara.
Nonostante le sue umili orgini, questa “ sfoglia” croccante,  sottile al punto da dire di qualsiasi persona o oggetto con poco spessore “pare na panella”, ottenuta con la farina di ceci, dal  gusto apparentemente “sciocco”, una volta lavorata con acqua, prezzemolo e sale e, poi,  fritta in olio bollente,  assume un sapore talmente invitante da diventare irresistibile per chiunque (palermitano e non) si trovi a passare davanti ad una delle tante friggitorie (panellerie) disseminate per la città come tante esche alle quali è difficile, se non impossibile,  non abboccare.

Gli estimatori  preferiscono cospargere questi “croccanti  fazzoletti bollenti” di succo di limone spremuto “a vivo” , incuranti del fatto che lo stesso succo colerà,  inevitabilmente, dalle mani fino ai gomiti,  poiché il senso di “leggerezza” che il prezioso agrume regala alla frittura, consente loro di “ingurgitarle” una dopo l’altra senza sentirsi appesantiti finchè il “panellaro”, solitamente pingue e sudaticcio,  fritta l’ultima panella, non decida di chiudere bottega.
Sembra  che la nascita di questo illustre rappresentante dello “street food ” risalga alle sperimentazioni gastronomiche  degli arabi, dominatori della Sicilia,  a cavallo tra il  IX e l’ XI secolo,  i quali, macinando i ceci, ottennero una farina che, mescolata all’acqua,  dava un impasto crudo, dal sapore non eccezionale che, però, una volta fritta, acquisiva tutt’altro sapore.
Per apprezzare al meglio il gusto delle panelle è preferibile mangiarle calde al punto che pare che il detto siciliano
chianciri a panella” sembrerebbe riferirsi al fatto che la panella calda è di certo difficile da mangiare senza scottarsi (la versione siciliana del detto sulla cosiddetta  “patata bollente”).
Le panelle,  insieme alle “crocchè”,  sono l’emblema della sicilianità. Un buon panino con le panelle e crocchè è il miglior spuntino da strada che si possa gustare a Palermo, in grado di oscurare qualsiasi  “fast food” perché   alla velocità del pasto unisce un sapore unico ed inconfondibile impossibile da trovare altrove.
Costituite da pochi, semplicissimi,  ingredienti, si dice che il segreto della frittura stia nel metodo utilizzato dal panellaro per capire se l’olio è bollente ( che qui non riportiamo per buona creanza), a meno che anche a casa non si voglia utilizzare lo stesso metodo ( cosa che sconsigliamo vivamente), di certo la panella “da strada” ha quel “non so che” che la rende veramente speciale e unica.
In passato il panellaro aveva  con un  “carretto” sul quale era montato un “baracchino” di legno chiuso da tre lati al  cui interno vi erano : un fornello in pietra lavica sul quale era posta  una grande padella utilizzata per la frittura, un ripiano in cui si mettevano in mostra in piatti di allumino le panelle già fritte, un contenitore di latta con il coperchio bucherellato per il sale, usato in base al gusto del cliente.
In un’angolo si potevano intravedere  le “mafalde”, pagnotte dalla caratteristica  forma  di “serpentone” ricoperte di “cimino” e, appesi ad un gancio, i rettangoli di carta già tagliati a mo’ di tovagliolo. In seguito, il carretto è stato sostituito dall’altrettanto caratteristico “lapino” attrezzato per cuocere al momento le panelle e le crocchè crude con cui farcire, ancora calde, le più comode pagnotte rotonde.
In realtà panelle e crocchè sono inseparabili, e anche se nessuno vieta di comprare separatamente le une dagli altri –  come si dice “non osi dividere…”-  sarebbe veramente un peccato non gustare entrambi “accolti” all’interno di un accogliente e morbido panino.

Ciò che rende vincente il connubio tra i due cibi è la loro – solo apparente- contraddizione  dovuta alla materia prima di cui sono composti. Le crocchè, infatti, sono realizzate con le patate, che conferiscono loro, sotto la croccante crosta,  una consistenza morbida e soffice, ben diversa  ma complementare alla croccantezza della panella.

Una volta accertata la giusta temperatura dell’olio, (con il metodo di cui abbiamo preferito tacere) il panellaro, armeggiando con i suoi “ferri del mestiere” (schiumarole di diverse dimensioni) immergeva le panelle ed, in pochi minuti, le serviva ai clienti che seguivano “in diretta” con attenzione i suoi movimenti. Nel tempo sono nate diverse friggitorie, dislocate in maniera “tattica” in più parti della città, in modo da divenire un punto di riferimento per i clienti del “fast-food” alla palermitana. Questo tipo di locale richiama alcuni locali dei mercati arabi, ma anche alcuni  delle città spagnole: ambedue friggono ogni sorta di vivanda, poi consumata per strada rientrando a pieno titolo nel cosiddetto “street food” meglio noto come cibo da strada.

Il Pitrè riferisce che “anticamente le panelle, si preparavano facendo sciogliere la farina di ceci in acqua con sale e prezzemolo. Poi si poneva il recipiente sul fuoco e si rimescolava continuamente sino ad ottenere una pasta piuttosto solida (tipo polenta) che, ancora calda, si spalmava in apposite formelle di legno di faggio dalla canonica forma rettangolare (4×8 cm).  Sulla formella di legno spesso era  inciso un elemento floreale che, al raffreddamento della pasta, formava sulla panella cruda un rilievo di circa 3 millimetri. Questi rilievi avevano differenti forme tra cui, più frequente, quella di pesce.” Si ottenevano così  le cosiddette  “pisci-panelli”,  come le chiamavano i più indigenti che, mangiandole, s’illudevano di mangiare la frittura di pesce, che non  si potevano permettere.
Oggi, invece che usare le  formelle,  si usa stendere l’impasto su una lastra di marmo e tagliare dei riquadri più o meno regolari. Per ottenere, invece, delle panelle tonde,  un tempo si usava  inserire l’impasto in una latta d’olio vuota a cui venivano asportate  le due estremità. Una volta rassodato il composto, esercitando una leggera pressione da un lato, si tagliano  dall’impasto che fuoriesce dall’altro lato, dei dischi di medio spessore. Una volta fritte vengono adagiate calde e gonfie sopra un ripiano d’alluminio bucherellato in modo da fare scolare l’olio in eccesso per poi andare a riempire, su richiesta, la  morbida pagnottella tagliata a  metà.

Quanto alle crocchè,  si ottengono, dalla purea di patate bollite, cui si aggiunge prezzemolo o mentuccia, sale e pepe. Con le mani umide si formano delle “crocchette” della lunghezza di circa 5/6 cm che si friggono in abbondante olio di semi fino a quando non risulteranno ambrate. Dalla preparazione delle panelle e delle crocchè, raschiando con una paletta sia il fondo sia i bordi delle casseruole dove erano  stati preparati i rispettivi impasti,  si ottiene un nuovo impasto fatto dalle due materie prime con cui  si ottiene la cosiddetta “rascatura”, con cui si preparano delle altre piccole polpette  dal gusto particolare e, cosa da non sottovalutare, in passato ,dal prezzo ancora più basso, per chi non poteva permettersi neanche le crocchè tradizionali.

Inutile dire che qualsiasi descrizione, seppur pedissequa,  non potrà mai rendere giustizia al gusto incomparabile di recarsi, in prima persona,  davanti ad una friggitoria, attendere pazientemente il proprio turno, rispondere a proprio gusto alla domanda puntuale del panellaro (panelle e crocchè?), e, finalmente, addentare il tanto atteso panino (o cuppino) con estrema soddisfazione.
Per questo motivo è proprio il caso di dire che “ il primo panellaro non si scorda mai” e chiunque, prima o poi,  ci ritorna con lo stesso entusiasmo con cui un bambino attende il Natale. Per tutti coloro  che volessero provare a prepararle in casa, di seguito,  riportiamo la ricetta delle panelle.

PANELLE

Ingredienti
500 gr di farina di ceci
un litro e mezzo di acqua

Fate sciogliere la farina a freddo nell’acqua. Appena sarà sciolta, cuocete a fuoco moderato e girando  fino a che il composto non si sia solidificato. Versate tutto il composto su una superficie  liscia e umida ( preferibilmente di marmo)  e lasciate raffreddare e solidificare per bene. Appena il composto è freddo e solido, tagliatelo a fette quadrate o triangolari di medio spessore e  friggetele in abbondante olio bollente. Servitele ben calde  condite con sale, pepe e limone e/o accompagnate da pagnotte con cimino (sesamo).

Quando alla passione per il cibo, inteso nella sua accezione più nobile di storia e cultura della gastronomia, si unisce quella per la scrittura, può divenire forte l’esigenza di creare un contenitore in grado di riunire tutte le tematiche che ruotano intorno a questo inesauribile argomento.

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